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L'intervista apparsa su Il fatto quotidiano del 7 marzo 2015 |
Ecco il testo integrale dell'intervista rilasciata da Pannella al Fatto quotidiano del 7 marzo 2015. Come vedrete torna sulla questione del (o dei) figlio naturale e poi cita varie volte la propria vita in provincia di Teramo. È da leggere. P.S.: più che un'intervista è un monologo!
di Antonello
Caporale
Marco Pannella è
l’unico leader a far parlare il corpo in sua vece. Obbliga cioè il
corpo malgrado una lingua torrenziale a monumentali battaglie
politiche. E così rinsecchisce o ingrassa, si espande (a volte si
moltiplica) o si riduce. Lo fa vivere o lo asseta nello stile
singolare che lo ha condotto per mezzo secolo a guidare da
padre-padrone il Partito radicale. Un partito che poi non è
esattamente un partito.
(Al caffè Sharì
Varì, tre del pomeriggio).
«L’idea di morire
a volte mi arrapa. Mi rapisce, mi fa sognare. Perché il presente ha
due forme: c’è quello dei morti e l’altro dei viventi. Sapere
che le mie idee, i miei amori, la mia vita, i miei vizi saranno vivi
dopo di me mi consegna a un benessere spirituale, a una condizione di
entusiasmo. Ciascuno è corpo e storia e noi siamo seme che cresce.
Al liceo nella mia classe eravamo in quarantatré. E in tutta la
scuola l’unico Marco ero io. Negli anni ho visto fiorire un gran
numero di Marchi. Un po’ di merito secondo te, ce l’ho? Ci sono
amici cattolicissimi, che dunque credono nell’aldilà, nella vita
oltre la vita, e mi raccomandano sempre: Marco, riguardati. E infatti
credo di aver avuto un singolare riguardo per il mio corpo, per tutto
quello che gli ho dato e soprattutto per quel che gli ho tolto. I
nutrizionisti sono delle teste di cazzo, io credo nell’autofagia.
La mia longevità
(ho 85 anni e come vedi mi reggo ancora in piedi) è data anche dal
digiuno e proprio grazie all’autofagia: le cellule ripuliscono il
corpo, assetato o affamato, sacrificano quelle ossidate dallo stress
o dagli anni e danno propulsione invece alle altre, capaci ancora di
vita sana.
NON RICORDO più
quanti scioperi della fame e della sete ho fatto. Ma pochi sanno che
ho sempre avuto una fame ciclopica, oltre la misura. Ti dico solo che
già a cinque anni impazzivo letteralmente per le salsicce fresche di
maiale che, tenendo all’oscuro mamma, mi facevo spalmare su fette
di pane fatto in casa, fette tagliate in modo che fossero pesanti
come la roccia del Gran Sasso. Ricordo che mia zia, compagna
di vacanze della mia famiglia a Giulianova, mi spalmava la
salsiccia di carne fresca sul pane abbrustolito.
Che bontà! Mamma
che era francese provava scandalo e timore di infezioni: la carne
fresca! Di maiale poi!
Io non mi fermavo
mai, e facevo ripetute visite alla ghiacciaia (allora non c’era il
frigorifero). Prelevavo formaggi stagionati, pezzi di pecorino. Avevo
una scaltrezza unica, dissimulavo benissimo. Nessuno in casa pensava
che potesse essere il bimbetto a fregarsi il pecorino piccante. I
sospetti cadevano sempre sull’incolpevole Annuzza, la domestica.
All’età di
militare mi pesarono: 65 miserabili chilogrammi su un metro e
novantuno di altezza. La fame non mi ha mai lasciato, e ogni giorno
devo gioiosamente provvedere a cucinare almeno 250 grammi di pasta
(De Cecco se sono in Italia, a Parigi trovo la Buitoni).
Faccio il sugo io,
ai pomodori Ah, riferiamo che oggi io mi faccio sessanta sigari
al giorno.
A 24 anni andavo
avanti con 80/100 sigarette Celtic. Le Gauloises e le Gitane
erano troppo leggere per me.
ORA SAI CHE
facciamo? Ordiniamo un tiramisù. Oggi smetto lo sciopero (giustizia
giusta, amnistia ai detenuti ndr), lo smetto qui con te. Devi
scattarmi una foto. Voglio sempre che il momento sia certificato, in
qualche modo validato. Scattato? Fammi vedere.
Si vede bene la
bocca? E il cucchiaino? E la crema?
Il mio corpo, ah
questo corpo.
Nel linguaggio
radicale si dice dar voce, dar mano, dar corpo.
E anche l’atto
sessuale è una forma di comunione, di convivio. Ho detto, e ora
ripeto a te, che probabilmente ho due figli naturali. Te lo dice uno
che negli anni giovanili della Fuci faceva maggioranza con i
congregati mariani, mi trovavo meglio con loro che con i comunisti.
Dico che
probabilmente ho due figli perché le donne con le quali è accaduto
(di un concepimento sono certo, del secondo ho qualche dubbio, ma non
ho approfondito mai) erano sposate e hanno ritenuto di conservare il
loro legame e di farne partecipi i rispettivi compagni della
gravidanza e della volontà di portarla a termine.
Perché mi dici che
ho confessato questi segreti quasi con distrazione, con
superficialità?
Non è assolutamente
vero. Sapevo, ero cosciente di dire una cosa grave, impegnativa,
importante per me. Non dimenticare che la donna della mia vita è
Mirella. Ero in Abruzzo e ricordando quegli anni, erano gli anni
dell’Università a Napoli, ho riferito di aver conosciuto una
ragazza più giovane di me con un cognome francese. Fu un amore
tenerissimo... È stata una parentesi, come altre ce ne sono state. E
mi è sembrato un gesto di rispetto e di responsabilità tenere
presente quella sua scelta. Non ho voluto invadere l’altrui vita.
Quel bimbo o quei bimbi avevano genitori e amore.
Come amore e
responsabilità ci fu quando con la mia compagna decidemmo invece di
non dare corso alla gravidanza, scegliemmo l’aborto e io fui con
lei. Lo praticammo insieme, l’aiutai materialmente. Fummo coscienti
e certi della nostra azione. E ci sembrò giusto di non dare vita.
Non dimenticare una
terza cosa fondamentale: con il corpo si dà voce e volto alle
battaglie e dunque necessariamente anche all’amore. Victor Segalene
scriveva: A colui che perviene sin qui malgrado la svolta e i passi
falsi. Al compagno che ti dona i suoi occhi, cosa a mia volta devo
donare in cambio di questo sguardo?
Si parla di
paternità, di maternità. L’uomo e la donna. Ma poi c’è la
fraternità. E c’è l’uomo con l’uomo. La mia bisessualità non
è stata una scelta ma un destino, in spagnolo si dice destinazione.
È stata lo sviluppo di un percorso, il frutto di un rapporto che si
condensa in amore dialogico. Quante me ne hanno dette nel tentativo
di darmi del “frocio internazionale”.
Ma il partito è
comunità, comunione e quindi convivio. Cum vivere. E io ho
convissuto, dando parola e ricevendo parola, dando amore e ricevendo
amore.
Non voglio avere la presunzione di essere esempio di qualcosa.
Sono quel che vedi. Ma non ho mai smesso di credere nella ricerca
filosofica dell’amicizia, nell’amore inteso nella sua forma
dialogica e anche nella pienezza della fisicità. Ho combattuto, ho
dato e ho amato. Teneramente, intensamente.»